la resistenza romana
Via Tasso

Cinque celle, dove nei nove mesi dell' occupazione nazista della capitale, tra il 1943 il 1944, furono rinchiusi e torturati centinaia di partigiani della Resistenza romana prima di essere deportati per essere fucilati alle
Fosse Ardeatine o a Forte Bravetta. È il palazzo in via Tasso 145, a poche decine di metri dalla Basilica di S. Giovanni in Laterano. Fatto costruire negli anni '20 dal principe Francesco Ruspoli, fu affittato all'ambasciata germanica, che nel '43 lo consegnò all'ufficiale delle SS Herbert Kappler, il quale lo trasformò in una caserma della Gestapo, adibendo il lato sinistro ad alloggi di ufficiali e il lato destro, due appartamenti al secondo e terzo piano, a carcere. In ogni cella, di 5 metri per 6, vissero stipati per mesi circa 15 detenuti senza luce (le finestre erano state murate), con un solo pasto quotidiano e senza possibilità di uscire, salvo una volta al giorno per andare in bagno.

Nei mesi della detenzione, partigiani - come l'attuale presidente della Corte Costituzionale Giuliano Vassalli; il colonnello del Genio Giuseppe Cordero di Montezemolo; i generali dell'Aeronautica Sabato Martelli Castaldi e Roberto Lordi; il sindacalista Bruno Buozzi - lasciarono sulle pareti delle celle i 'segni' della loro resistenza: firme, messaggi di incoraggiamento per i compagni, notizie ai famigliari o avvertimenti, come il coniglio disegnato al centro della parete della cella n.2, accompagnato dalla scritta «Attenti a».

Dalla cella numero 1 furono deportati alle Fosse Ardeatine numerosi partigiani, come l'avvocato Carlo Zaccagnini, il diplomatico Filippo De Grenet, il sacerdote don Pietro Pappagallo, che ispirò il personaggio intepretato da Aldo Fabrizi nel film di Roberto Rossellini «Roma Città Aperta», il colonnello Montezemolo e il capitano di artiglieria Mario Magrì. A dirigere le operazioni c' era anche il capitano delle SS, Erik Priebke. E la testimonianza di eccidi, come quello delle Fosse Ardeatine o le esecuzioni capitali a Forte Bravetta, sono custoditi proprio nelle celle, dove alle pareti sono appese camicie insanguinate, i brandelli di indumenti recuperati sulla salma di Montezemolo, lettere e documenti trovati addosso ai martiri. Oltre a lasciare scritte sui muri, i detenuti cercavano di eludere la rigida sorveglianza passandosi messaggi in codice su fettucce di tela, nascoste sugli indumenti. A 56 anni di distanza i luoghi del martirio sono rimasti intatti, mentre l'ala sinistra è occupata da 13 appartamenti, dove vivono nove famiglie.